XXXII.

Giacomo Leopardi

Al centro del primo Ottocento e delle sue tensioni fra riprese dell’illuminismo e nuovi problemi romantici si erge la grandissima personalità del Leopardi, il maggiore poeta italiano moderno e uno dei maggiori di tutta la letteratura europea.

La grandezza della poesia leopardiana, tanto variamente giustificata e spiegata dalla critica, appare tanto piú chiara se si comprende interamente la complessità e la forza della personalità da cui essa è stata prodotta e se si rifiutano le immagini troppo spesso tradizionalmente accettate di un Leopardi «spettatore alla finestra», dominato da una ispirazione puramente idillica, vivo solo nei suoi quadri incantevoli e perfetti e nella sua musica melodica. Viceversa la sua grande poesia nasce da una personalità forte, mossa da una grande passione morale, da un grande coraggio di verità, capace di intervenire, con estremo vigore intellettuale, nei grandi problemi del suo tempo, di scandagliare, con spregiudicato ardire, nella condizione dell’uomo. Una personalità che può ben definirsi eroica nel senso piú profondo della parola, anche se il suo eroismo non è assurdamente rigido, ma umanamente ricco di momenti di abbandono, di moti di evasione nel sogno, di desolata disperazione.

La sua poesia vibra sempre di una profonda energia anche nelle sue pieghe piú dolci e morbide, e, ripeto, essa non nasce miracolosamente in contrasto con una vita strozzata e angusta, sopraffatta dalle miserie e dalle malattie e in contrasto con un pensiero arido e pessimisticamente scettico e fuori della storia e dei suoi problemi.

Ciò che deve preliminarmente capirsi è proprio che la poesia leopardiana nasce dal formidabile sviluppo di una personalità viva nella storia, ricca di forze autenticamente intellettuali, mossa in una profonda battaglia culturale e ideale contro le prospettive della Restaurazione e le ideologie reazionarie o moderate, spiritualistiche e facilmente ottimistiche, come contro ogni visione metafisica e provvidenziale della vita, culminante nell’ardente e inquietante messaggio di solidarietà umana della Ginestra, che ben mostra la vera natura del pessimismo energico e attivo del Leopardi. Per questo il Leopardi è un grandissimo poeta che dalla storia del suo tempo può ancora parlare a noi non solo con la voce perenne di ogni vero grande poeta (né c’è, del resto, vero grande poeta che non abbia vissuto in sé veri grandi problemi), ma con la problematica che nella sua poesia fermenta e si esprime.

Pensiero e poesia, moralità e cultura, sentimento e comprensione del tempo storico, ricerca di verità e di arte collaborano profondamente e organicamente nella genesi e nella realizzazione dell’opera leopardiana, comprensibile tanto meglio solo nella ricostruzione del suo lungo e tormentoso sviluppo che in un’unica definizione sommaria.

1. La vita

Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e da Adelaide Antici-Mattei in una famiglia di antica nobiltà, ma economicamente in notevoli difficoltà a causa della cattiva amministrazione di Monaldo. Questi era tutto preso dalle sue ambizioni di studioso e di scrittore, caparbiamente legato alla causa del trono e dell’altare, in continua e assurda battaglia contro ogni idea progressiva e liberale; la madre era animata da un cattolicesimo chiuso e intransigente e da un’energica e rigida volontà di ricostituire l’integrità del patrimonio familiare. Cosí ai limiti di una vita di piccola città provinciale, di cultura arretrata e isolata, si aggiungevano l’angustia e la severità di un ambiente familiare di scarso calore affettivo e di idealità e costumi rigidamente nobiliari e bigotti, mal corrispondenti alla precoce e vivissima sensibilità del fanciullo (esercitata nel legame affettivo con il fratello Carlo e la sorella Paolina), al suo prepotente bisogno di vita e di cultura, alla sua geniale intelligenza che rapidamente assimilò le scarse offerte della cultura paterna e di alcuni precettori ecclesiastici di assai modesta levatura intellettuale. Sicché, presto esaurite le piccole soddisfazioni di fanciullo prodigio nei successi riportati, con le proprie precocissime composizioni in italiano e in latino, nelle sedute di un’Accademia che Monaldo aveva istituito nel suo palazzo, Giacomo si rivolse voracemente ad uno studio personale di geniale autodidatta che, utilizzando la vasta anche se disordinata e diseguale biblioteca paterna, lo portò presto a impadronirsi profondamente non solo del latino e del francese, ma anche del greco e dell’ebraico, a possedere una vasta e sicura erudizione, a intraprendere impegnativi lavori eruditi e filologici in cui si rivelavano una mente acutissima e rigorosa e una sicura vocazione di grande filologo.

Ma quegli anni passati nel chiuso della biblioteca paterna e che piú tardi lo stesso Leopardi qualificherà come anni «di studio matto e disperatissimo» influirono rovinosamente sulla sua costituzione fisica, che ne uscí irrimediabilmente indebolita e deformata, soggetta a malattie che angustieranno poi sempre la sua vita fino a farne un vero e continuo martirio e ad avvalorare (non a determinare, come troppo spesso volgarmente si pensò) con una personale esperienza e sofferenza il suo pessimismo, la sua visione dolorosa della condizione umana, bisognosa di felicità e di piacere e viceversa esposta continuamente al dolore e alla sventura.

Intanto un impetuoso sogno di gloria e di affermazione, al di là del ristretto ambiente recanatese (che sempre meglio gli apparirà come un «carcere», una «caverna» chiusa alla vita e alla cultura moderna, angolo arretratissimo dell’arretrato Stato pontificio), induceva l’adolescente a cercare contatti e rapporti con letterati e studiosi dei centri italiani piú vivi e aperti (specie Milano), a inviare suoi scritti a riviste diffuse e autorevoli, mentre dall’erudizione e dalla filologia egli passava a traduzioni poetiche e a componimenti poetici personali (ben diversi dalle esercitazioni poetiche degli anni della sua precoce fanciullezza), mosso da un autentico bisogno di quella espressione poetica che dominerà poi tutta la sua complessa attività di pensatore, di filologo, non senza alimentarsi, come vedremo, delle altre forze ed esperienze della sua grande personalità.

E cosí nel 1817 il Leopardi entrò in rapporto epistolare con uno dei maggiori letterati italiani del tempo, Pietro Giordani, classicista non privo di forti limiti di gusto e di prospettive ideali, ma certamente uomo e letterato vivo e aperto, religiosamente spregiudicato e politicamente avanzato. Si trattò di un incontro fondamentale per il giovane Leopardi che nelle lettere inviate al Giordani (appassionate e intense come in gran parte sono le lettere leopardiane in genere) poteva sfogare il suo animo, trovare una comprensione delle sue pene di segregato e delle sue aspirazioni alla vita, un riconoscimento, estremamente stimolante, del suo genio e dell’autenticità della sua vocazione letteraria.

In quello scambio epistolare (cui seguí nell’autunno del ’18 un incontro, a Recanati, tollerato a malincuore da Monaldo, sospettoso della pericolosa influenza del Giordani sul figlio) il Leopardi prese piú chiara coscienza di sé, dell’insopportabilità del carcere recanatese e paterno, della sua crisi profonda che veniva ormai investendo non solo le opinioni religiose e politiche in cui era stato educato, ma la stessa validità della ragione e della verità razionalmente intesa e che raggiungeva i toni della disperazione spingendo il giovane a tentare, nel ’19, una fuga da Recanati, scoperta e sventata dal padre. Dopo quel tentativo fallito il Leopardi si chiuse tutto nella sua meditazione filosofica (a parte la continuazione del colloquio epistolare con il Giordani e altri corrispondenti) e nella sua opera poetica, finché verso la fine del ’22 il padre gli consentirà finalmente di uscire da Recanati e di soggiornare alcuni mesi a Roma in casa dello zio, il marchese Carlo Antici.

Ma quel soggiorno romano non fruttò in realtà al Leopardi che una profonda delusione, tanto l’ambiente romano (a parte alcuni studiosi stranieri come il Niebuhr e il Bunsen con cui egli strinse salda e sincera amicizia) lo infastidí con le convenzioni ipocrite e insulse della Curia pontificia e dei letterati arretrati e chiusi in una sterile erudizione archeologica; e cosí il Leopardi ne trasse come una piú profonda convinzione della vanità di felicità e piacere e un rinnovato bisogno di scavare nei problemi della condizione umana, del rapporto fra uomini e natura, del reale carattere della stessa natura che fino ad allora aveva esaltato come madre benefica e alimentatrice delle belle e generose illusioni. E a tale impegno di meditazione e di analisi filosofica, consolidata in un’alta espressione letteraria, il Leopardi si dedicò, ritornato a Recanati, nell’aprile del ’23, sia nella prosecuzione dello Zibaldone, sia nella stesura delle Operette morali, la cui maggior parte venne scritta nel 1824.

Poi nel luglio del 1825 il Leopardi può di nuovo lasciare il «natio borgo selvaggio» restandone lontano (salvo una breve parentesi nell’inverno 1826-1827) fino alla fine del 1828, e può mantenersi, fuori della casa paterna, con un tono di vita estremamente modesto, grazie ad un assegno mensile corrispostogli dall’editore milanese Antonio Stella per la compilazione di varie opere, come il commento alle rime del Petrarca, la Crestomazia della prosa e della poesia italiana, le versioni degli scritti di Isocrate e di Epitteto: assegno integrato, in certi periodi, da lezioni private. Prima egli vive a Milano nell’agosto-settembre del ’25, poi dall’ottobre del ’25 all’ottobre del 26 e dall’aprile al giugno del ’27 a Bologna, infine (sino all’autunno del ’28) a Firenze e Pisa, invano cercando un qualche impiego o cattedra che desse maggiore stabilità e sicurezza alla sua vita, stretta dalle necessità economiche e afflitta dalle malattie frequenti e varie cui il suo debole organismo era quasi continuamente soggetto.

E se nei soggiorni a Milano, a Bologna, a Firenze non mancarono a lui amicizie e conoscenze (quella bolognese con il giovane Carlo Pepoli e con la contessa Teresa Malvezzi, oggetto di una breve e delusiva infatuazione amorosa; quella fiorentina del Vieusseux, del Colletta, del Poerio, del Capponi e di altri letterati e studiosi raccolti intorno alla rivista del Vieusseux, l’«Antologia»), solo il soggiorno a Pisa fra inverno e primavera del ’27-28 poté contribuire – dopo anni dominati dalla malinconia e dalla depressione – a quella ripresa di vitalità e di sensibilità che trovò espressione nella nuova poesia del «Risorgimento» e di «A Silvia».

Ma verso la fine del ’28, tornato a Firenze, le condizioni di salute del Leopardi si aggravarono e non gli permisero piú di portare avanti nuove imprese editoriali (specie a causa di una grave malattia agli occhi) e di ricevere cosí l’assegno mensile dello Stella. E cosí egli fu costretto a tornare a Recanati, dove rimase sino all’aprile del 1830 in una solitudine cupa e disperata («sedici mesi di notte orribile», come il Leopardi scrisse in una lettera) anche se, per contrasto con quella realtà insopportabile (fra l’odio per i suoi concittadini gretti e malevoli nei suoi confronti e i dissensi sempre piú profondi delle sue idee rispetto a quelle del padre), la tensione interna del suo animo si tradusse in alcuni dei suoi canti piú alti e perfetti, piú ricchi di affetti e di incantevoli ricordi della fanciullezza e della prima gioventú.

Poi, mentre svanivano alcune prospettive di vita fuori di Recanati (come il premio dell’Accademia della Crusca a cui il Leopardi concorse con le sue Operette morali e che fu invece assegnato allo storico Carlo Botta), il poeta dové rassegnarsi ad accettare l’offerta fattagli dal Colletta di un assegno sottoscritto da vari «amici di Toscana» (che vollero rimanere ignoti) e che un naturale orgoglio inizialmente gli aveva fatto rifiutare.

Cosí nell’aprile del ’30 il Leopardi abbandonava per sempre Recanati e la casa paterna e si trasferiva a Firenze, dove rimase sino verso la fine del ’33 (con l’intervallo di alcuni mesi passati a Roma tra la fine del ’31 e l’inizio del ’32), quando si fisserà stabilmente a Napoli fino alla morte.

In quest’ultimo periodo della sua tormentata esistenza, malgrado il persistere o addirittura l’aggravarsi delle malattie e nuove delusioni di vario carattere (dal fallimento della sua speranza di ricavare guadagno dalla pubblicazione, all’estero, dei suoi scritti filologici alla proibizione dalla censura fiorentina di un giornale che egli aveva progettato, fino alla profonda delusione della sua passione per la signora fiorentina Fanny Targioni-Tozzetti), l’atteggiamento del Leopardi verso la vita si fa come piú apertamente risoluto e combattivo, piú incline a stringere rapporti di amicizie (fra cui centrale diviene quello per il giovane Antonio Ranieri), a sentire e affermare il proprio valore e le proprie idee, difese energicamente (oltre che espresse nelle opere di questo periodo) in lettere fiere e decise. Come egli fece in una lettera all’amico svizzero De Sinner, quando da questo ebbe notizia di una recensione tedesca ai suoi Canti in cui il suo pessimismo veniva interpretato solo come conseguenza delle sue malattie, o come fece in altre lettere al Vieusseux quando si diffuse la voce di una sua vestizione sacerdotale o quando vennero a lui attribuiti quei Dialoghi intorno alle materie correnti, di estremo carattere reazionario, opera del padre Monaldo, e che Giacomo definí «sozzi, infami dialogacci».

E lo stesso modo impetuoso e appassionato con cui il Leopardi visse, fino alla sua conclusione negativa, la sua unica vera passione amorosa (quella appunto per la Fanny Targioni-Tozzetti) ben concorda con tutto l’atteggiamento intenso, risoluto, eroicamente persuaso e virile che contraddistingue la vita leopardiana nel suo ultimo periodo, con la sua piú sicura e dura presa di posizione ideologica (e, seppure piú indirettamente, politica) contro ogni dottrina ottimistica, religiosa, spiritualistica, con lo stesso appassionato tono dell’amicizia per il Ranieri, che rimarrà essenziale nella vita affettiva del Leopardi e che si stringerà in un «sodalizio» ininterrotto sino alla morte.

Questo sodalizio si consoliderà ulteriormente quando il Leopardi (cui finalmente giungeva dalla casa paterna un piccolo assegno mensile) passò a Napoli e vi trascorse i suoi ultimi quattro anni di vita, confortato dalle cure affettuose del Ranieri e della sorella di questo, Paolina.

Nell’aprile del 1836 (mentre a Napoli si diffondeva una tremenda epidemia di colera) il Leopardi si trasferí con i suoi amici in una villetta alle falde del Vesuvio, fra Torre del Greco e Torre Annunziata. In quella villetta scrisse il suo estremo messaggio poetico, la Ginestra, e in essa si spense il 14 giugno 1837.

2. La formazione e la prima attività del Leopardi

L’esercizio letterario del Leopardi fu precocissimo, se si pensa che già fra il 1809 e il 1812 egli scrisse numerosi componimenti in versi, fra cui due brevi tragedie (il Pompeo in Egitto e La virtú indiana). Ma se già in questi scritti della fanciullezza sarà da notare una ben precoce abilità e capacità di apprendistato di varie forme della letteratura poetica settecentesca, solo con i saggi eruditi in prosa del 1813-1815 (Storia dell’astronomia e Saggio sopra gli errori popolari degli antichi) si profilano alcuni caratteri della personalità leopardiana in formazione, come il bisogno di intervenire in prima persona in problemi culturali e filosofici e l’ansia di verità e di battaglia per la verità che, nel secondo e piú maturo di quei saggi, si complica con una specie di attrazione poetica degli errori e dei miti favolosi dell’antichità per il loro aspetto arcano e immaginoso che dà luogo a passi letterariamente piú mossi e pittoreschi.

Ma è soprattutto nel 1816 che il Leopardi, attraverso un lungo esercizio di traduzioni poetiche (gli idilli di Mosco e Bione, il secondo libro dell’Eneide, i primi due libri dell’Odissea, la Titanomachia di Esiodo e la Batracomiomachia), è riportato alla poesia con la cantica L’appressamento della morte che, pur in forme di imitazione dantesca e montiana, contiene i primi accenti di una poesia fondata su sentimenti personali, sul primo avvertimento da parte del Leopardi di una sorte di infelicità e di morte precoce, contrastante con il suo anelito alla vita e alla gloria.

Sentimenti che vennero poi rafforzati nel 1817 da quella migliore coscienza del proprio valore, delle proprie aspirazioni, della propria infelicità e segregazione nel «carcere» recanatese e paterno, e dal crescente premere di una passione patriottica e liberale (ormai opposta alle convinzioni reazionarie e angustamente cattoliche dovute all’educazione paterna), che trovarono appoggio e stimolo nell’ardente amicizia e nel colloquio epistolare con il Giordani nonché in un’appassionata lettura della Vita dell’Alfieri, dal cui modello di uomo e di scrittore libero il giovane Leopardi trasse conforto ad una prospettiva eroica, ad un impegno di letterato militante per la patria e la libertà e insieme un impetuoso sfogo di sentimenti appassionati e nobili.

Cosí sulla fine del ’17 una improvvisa e brevissima vicenda di innamoramento per la cugina Gertrude Cassi, ospite per pochi giorni in casa Leopardi, si tradusse in un Diario d’amore, primo documento di uno scavo autobiografico lucidissimo e appassionato, in una prosa che fortemente risente della lezione della Vita alfieriana, e in quell’elegia Il primo amore che, fra molte reminiscenze letterarie, fa pure avvertire il muoversi intenso e irrequieto dell’animo leopardiano che si esalta e si compiace del proprio alto e puro sentimento amoroso, della propria vocazione alla schiettezza e nobiltà sentimentale.

Ma piú forte si rivela – in questo aprirsi tumultuoso dell’animo leopardiano a sentimenti alti e impegnativi, in questo bisogno ardente di rompere i limiti angusti della sua condizione di vita con impegni e affermazioni totali della propria intensa personalità – l’impegno del giovane scrittore in una prospettiva di battaglia culturale, letteraria e patriottica a cui si riconducono, nel 1818, sia il vigoroso e geniale intervento nella polemica fra classicisti e romantici (quel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica che – mentre anticipa tante geniali intuizioni leopardiane sul tema della poesia, del vago e dell’arcano, e sul valore dello stile, frutto di studio e di cultura profonda – prospetta un tipo di classicismo pieno di succhi romantici, tutt’altro che pedantesco e archeologico, collegato al contrasto fra natura e ragione che diventerà a lungo fondamentale in tutta la concezione filosofica e poetica leopardiana), sia le due canzoni civili e patriottiche All’Italia e Sopra il monumento di Dante che costituiscono indubbiamente le prime prove piú costruite e significative della poesia leopardiana, anche se elaborate e spesso appesantite in una direzione di poesia eloquente e grandiosa non priva di retorica e di eccessiva letterarietà. Esse non sono comunque pure e semplici esercitazioni oratorie.

E infatti nella canzone All’Italia l’impeto estremo e sin paradossale del giovane poeta («l’armi qua l’armi / combatterò, procomberò sol io»), proteso a risollevare le sorti dell’Italia decaduta e schiava degli stranieri (fossero i francesi del periodo napoleonico o, seppur non potuti nominare, ma certo presenti all’intenzione del Leopardi, gli austriaci della restaurazione), ha una sua indubbia sincerità disperata e il suo movimento impetuoso, insieme al patetico colloquio con la figura piangente dell’Italia, è pur necessario a sostenere l’ultima e piú suggestiva parte della canzone: quella parlata del poeta Simonide ai greci caduti per la patria, alle Termopili e a Maratona, che solleva il livello della poesia in una zona piú mitica e pura, ma che, ripeto, è alimentata e giustificata solo dall’impeto personale della prima parte della canzone.

E se nella canzone Sopra il monumento di Dante l’eloquenza ha spesso il sopravvento in forme piú involute e complicate, pur ben sincero e poetico è quel fondamentale tono di compianto sulle sorti dell’Italia contemporanea, attediata dalla torpida pace servile della Restaurazione; tono di compianto che trova la sua espressione piú compatta, e ricca di immagini e cadenze ben coerenti, nella commossa rappresentazione della misera sorte dei giovani italiani morti nella campagna napoleonica in Russia, sullo sfondo desolato delle immense distese ghiacciate nella cui evocazione ben vibrano già le tonalità del linguaggio leopardiano nella sua lenta, ma sicura maturazione verso il suo eccezionale incontro di reale e di vago, di casto e di suggestivo.

Nel loro rapporto le due canzoni rappresentano poi un rapido e intenso passaggio dall’impeto volitivo e fiducioso della prima al ricadere di quell’impeto nella disperazione profonda e delusa della seconda. Sicché esse ben anticipano quella profonda crisi del ’19 che – espressa a suo modo in due canzoni, poi rifiutate dal poeta per la loro imperfetta realizzazione stilistica, e dedicate ad argomenti che convalidavano il crescente pessimismo leopardiano: la tragica morte di una donna in seguito ad un tentato aborto voluto dal suo scellerato amante, la morte precoce di una giovane bella e fiorente, prova di una inconcepibile crudeltà della sorte – viene sviluppandosi dalla delusione patriottica del Leopardi in una piú vasta delusione storica che aggredisce e investe le stesse possibilità della ragione umana, rivela la vanità del vero e della civiltà su di esso fondata, la personale infelicità del poeta (ulteriormente aggravata dal fallito tentativo di fuga da Recanati), fino ad una infelicità dell’uomo moderno allontanatosi dalla natura e affidatosi ad una ragione sterile, gretta, egoistica, nemica della poesia, delle azioni generose ed eroiche, di quella vita piena di passioni e di sensazioni intense quale il Leopardi la vagheggiava, la desiderava, ben diversamente da certe immagini critiche di lui come amante del nulla e della morte o come contemplatore distaccato e addirittura come ultimo, se pur «divino», pastorello di Arcadia.

È nello Zibaldone (il suo diario privato iniziato stentatamente nel ’17 e poi sempre piú cresciuto di impegno e di proporzioni specie fino al 1823, per poi ridursi di mole fino a qualche raro appunto del ’30-32) che la meditazione leopardiana, in mezzo ad appunti e pensieri sulla lingua e sulla poesia, approfondisce questa crisi e articola quell’antitesi fra ragione e natura, fra arido vero e generose e belle illusioni che costituisce la spina dorsale di tutte le sue posizioni filosofiche, morali, linguistiche, estetiche per un lungo arco di anni, finché il suo lucido intelletto e la sua esperienza vitale logoreranno questo stesso sistema della natura e delle illusioni e l’antitesi natura-ragione, e riveleranno drammaticamente il vero volto, non benefico, ma crudele della natura, non madre, ma matrigna dei viventi. Ciò avverrà, come vedremo, con tormentato cammino, fra balenanti intuizioni poetiche e consolidamenti riflessivi piú definitivi, nel periodo centralmente dominato dalle Operette morali.

Ma prima, negli anni di cui ora ci occupiamo, la crisi leopardiana sfodava nella elaborazione del sistema (come il Leopardi lo chiamò, attribuendo alle sue idee e intuizioni un carattere sistematico maggiore di quello che esse realmente hanno) della natura (e delle illusioni), come unico stato destinato e propizio all’uomo e alla sua felicità, e proprio soprattutto delle età primitive e antiche, contrapposto al freddo e sterile dominio della ragione e della filosofia, proprio della decadenza dell’uomo moderno nella sua alienazione dalla natura.

Quanti pensieri dello Zibaldone insistono ora sulla vitalità, sull’entusiasmo, sull’eroismo, sull’energia, sull’azione come elementi essenziali di una vita degna di essere vissuta, e quindi sull’integralità dell’uomo quale sarebbe stato nella sua primitiva e naturale condizione e nell’epoca antica delle repubbliche greche e romane, quando gli uomini dominati da eroiche e generose illusioni volgevano l’amor proprio (istinto essenziale dell’uomo) al bene collettivo fino a sacrificarsi per quello, mentre i moderni snaturati, corrotti appaiono al Leopardi preda dell’egoismo freddo, calcolatore, antieroico: quell’egoismo in cui l’amor proprio si risolve quando gli uomini hanno perso ogni carica di illusione e di entusiasmo. E cosí anche per quanto riguarda il suo rapporto con la religione e con il cristianesimo, mentre il Leopardi cerca pure nello Zibaldone di questi anni di giustificarli come debole rimedio alla caduta delle illusioni dopo la fine dell’età classica, come surrogato inferiore delle grandi illusioni naturali e antiche (cercando insieme un certo raccordo fra la religione cristiana e il suo sistema della natura sull’idea di una decadenza e corruzione dell’uomo da un primitivo stato cui era destinato: paradiso terrestre per il cristianesimo, stato naturale per il Leopardi), in realtà egli ne individua e combatte sempre piú acerbamente la tendenza ascetica e contemplativa, la mortificazione delle passioni, l’educazione all’obbedienza dei poteri spirituali e politici, il compenso in una vita ultraterrena, che gli appare sempre piú vana al suo bisogno di felicità e di vita piena ed energica, interamente terrena.

Entro questo sviluppo di idee e in una collaborazione e ricambio fra pensiero e poesia che sono fondamentali nella complessa e organica esperienza leopardiana (la poesia non nasce da un pensiero prima tutto consolidato, ma collabora con quello e spesso lo sopravanza con intuizioni piú tardi consolidate da un punto di vista riflessivo) si possono meglio comprendere le direzioni e le fasi della poesia leopardiana di questi anni.

Cosí, fra ’19 e ’20-21, il Leopardi ritorna, con la canzone Ad Angelo Mai (scritta nel gennaio del ’20), a tentare la via della poesia civile e dell’intervento di esortazione patriottica agli italiani, richiamati, sulla base della scoperta del De republica di Cicerone da parte del Mai, a prender coscienza della loro decadenza recente (nella triste inerzia della Restaurazione) e della loro gloriosa tradizione antica e umanistico-rinascimentale. Ma la solenne e monumentale struttura lirico-eloquente della canzone è tutta internamente mossa e scossa da una formidabile e irrequieta pressione di motivi poetici che arricchiscono la trama esortativa ed esprimono la profonda crisi vissuta dal giovane poeta: la sua personale infelicità, il contrasto fra natura e arido vero, fra epoche animate da illusioni generose, beati errori e mitiche leggende poetiche, e la progressiva decadenza moderna dominata da una ragione calcolatrice, vile, impoetica, contraria a quell’unione di azione e sogni che – nella rassegna dei grandi italiani da Dante all’Alfieri – trova significativa realizzazione nella figura e nell’esempio di Colombo, uomo di azione e di fantasia e pur insieme, con la scoperta dell’America, involontario promotore di quell’ampliamento della conoscenza della terra che rimpicciolisce il mondo, ne rivela i limiti, ne abolisce i margini dell’ignoto, dell’arcano, del favoloso, fonte di poesia e di vita beata dalle illusioni volute dalla natura.

E la rassegna dei grandi poeti italiani insieme esalta i momenti della resistenza delle illusioni (come nel caso dell’Ariosto con le sue magnifiche leggende fantastiche) e in contrasto sottolinea con profondi accenti elegiaci la progressiva coscienza della vanità della vita, privata delle belle illusioni, culminando nella congeniale rappresentazione dell’ultimo grande italiano, l’Alfieri, che, nell’impossibilità di un’azione diretta, volse la sua poesia tragica ad una continua lotta contro la tirannide.

Tutto il mondo leopardiano si muove e si riversa irrequieto e tormentato in questa grande canzone in cui prevale l’accento pessimistico, la voce di una delusione storica e personale di profonda risonanza poetica.

D’altra parte, nello stesso periodo, a questa grandiosa costruzione si intreccia una nuova e piú privata direzione poetica in cui il Leopardi cerca, nella caduta della verità e nella crisi di valori reali, la via di un compenso di piú personali piaceri e l’espressione della propria piú personale acuita sensibilità, del suo scavo in se stesso e nelle proprie sensazioni piú intime, di cui fermava, in forma frammentaria di appunti e ricordi in prosa (Appunti e ricordi della fanciullezza e della prima gioventú), aspetti fra realtà e sogno, brevi scene paesane e teneri vagheggiamenti amorosi.

È la via dei cosiddetti primi idilli variamente intensi e variamente realizzati, ma accomunati da una tendenza nettamente privata, da un lavorio nella propria sensibilità e nella propria situazione personale e intima, fra sogni e aspirazioni piú incerte e languide (come nei piú tardi Il sogno e La vita solitaria), espressioni piú limpide e pure della sua sensibilità e dei profondi piaceri e compensi della sua immaginazione (come L’infinito soprattutto e Alla luna) o intrecci efficacissimi di idillio e di elegia come La sera del dí di festa.

Ciò che anzitutto deve esser chiaro è che questi idilli leopardiani sono ben lontani da un idillio di tipo arcadico, da una compiaciuta degustazione di una placida quiete dell’animo e di pittoreschi paesaggi ameni e leggiadri, e hanno invece un fondo variamente intenso di esperienza personale e un raccordo variamente sicuro, ma immancabile, con le posizioni leopardiane circa la vita e il bisogno di vita e di piacere in una situazione personale dolorosa e in una realtà limitata e inadeguata alle potenti aspirazioni dell’animo leopardiano.

Ciò riesce tanto piú facilmente dimostrabile nel bellissimo Infinito, in cui il piacere e l’esperienza dell’infinito (che scattano proprio di fronte all’ostacolo della siepe che limita la vista diretta dell’orizzonte) non sono una degustazione pittoresca e facile, una fantasticheria mistica e sognante, ma il compenso che animo e mente, sensibilità e intelletto si creano immaginosamente di fronte alla realtà limitata e incapace di reali piaceri infiniti e all’aspirazione umana ad un piacere, a una felicità infinita. E il poeta si crea, con un processo saldo, severo, perfetto (che passa dalle sensazioni presenti e limitate a quelle infinite, arcane, eterne dell’immaginazione), quel profondo piacere e vi si immerge con profonda consapevolezza («io nel pensier mi fingo») e con profonda dolcezza.

O sarà invece in Alla luna (in un ambito piú gracile e tenero, seppure di incantevole finezza) il piacere della ricordanza, dolce anche quando ricorda un avvenimento doloroso, in quanto crea, senza nessun ricorso a forme mistiche, aliene dalla filosofia e dalla mentalità leopardiana, una dimensione immaginaria e lontana dalla limitata realtà presente e immediata.

E cosí nella Sera del dí di festa è essenziale il motivo di contrasto fra la situazione dolorosa del poeta che si sente destinato all’infelicità e la bellezza serena del paesaggio notturno illuminato dalla luna o la quiete fiduciosa e lieta della donna vagheggiata e ignara del tormento del poeta. Cosí come questo bellissimo canto (troppo spesso criticato come giustapposizione ibrida di alti momenti di contemplazione idillica e di irruente autobiografismo) si svolge nell’intreccio fra la dolcezza del canto dell’artigiano e il sentimento struggente del poeta che avverte nel dileguare di quel canto nella notte un’allusione profonda alla fine del bramato e deludente giorno festivo e alla caducità di tutte le cose umane.

3. Le canzoni del ’21-22

Certo un componimento come L’infinito ha una sua indubbia perfezione. E tuttavia la direzione idillica nel suo carattere piú privato non poteva soddisfare a lungo il bisogno del Leopardi di portare la sua poesia ad intervenire nella storia del suo tempo, a dare espressione ai suoi piú complessi problemi filosofici quali si venivano ponendo e svolgendo nella meditazione dello Zibaldone.

Cosí, fra l’autunno del ’21 e la primavera del ’22, egli scrisse sei canzoni, che costituiscono un imponente ciclo poetico il cui culmine è rappresentato dalla quinta: L’ultimo canto di Saffo.

All’inizio si pongono due canzoni (Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone) che piú direttamente si ricollegano al programma leopardiano di una lirica esortativa e civile-patriottica, alimentata dall’aspirazione del poeta ad una vita eroica, attiva, entusiastica, piena di generose illusioni, in contrasto con la sua epoca e con l’Italia contemporanea pessimisticamente giudicate come vili e fredde, incapaci di virtú e di entusiasmo. Cosí la prima (scritta nell’occasione, poi svanita, delle prossime nozze della diletta sorella) si rivolge a Paolina e alle donne italiane perché educhino i loro figli e la nuova generazione all’eroismo e alla virtú (da cui può solo aver inizio un risorgimento della patria, decaduta a causa di un’educazione opportunistica ed egoistica), preferendo per loro un destino di sfortuna a quello di una vita vile e dando loro esempi di eroica virtú quale fu quello della romana Virginia che preferí la morte al disonore e cosí suscitò la rivolta liberatrice del popolo romano contro il tiranno Appio.

Né la canzone si risolve in un’esortazione e in una lezione impoetica, ché, pur in limiti chiari di persistente enfasi oratoria, essa è tutta animata da un profondo impeto magnanimo, da un sincero movimento di passione per il vigore morale, l’entusiasmo, l’eroismo, cosí essenziali nell’animo leopardiano e cosí esaltati in questo periodo di acceso sostegno al sistema della natura, datrice di vitalità e di illusioni attive, e di netto rifiuto (in tanti pensieri dello Zibaldone) di ogni concezione ascetica e rinunciataria, e quindi della stessa concezione cristiana con il valore da essa dato alla mortificazione delle passioni e alla preparazione a una vita ultraterrena. E quando all’impeto eroico si fonde la dolcezza di vagheggiamento per la figura, insieme gentile ed energica, di Virginia, sullo sfondo prediletto delle antiche età classiche, ricche di illusioni e azioni generose, la poesia tocca i suoi toni piú alti e arricchisce il linguaggio, fortemente sostenuto dall’esempio del linguaggio alfieriano, di sfumature e cadenze che non ne smorzano l’energia, ma ne riducono la possibile rigidezza ed enfasi.

E se la seconda – che prende lo spunto da un’occasione agonistico-sportiva (la vittoria di un celebre giocatore marchigiano del pallone a bracciale) e mira ad esaltare (sempre in vista di un’educazione virile ed eroica della nuova generazione italiana) il vigore fisico come essenziale a quello morale – ha parti faticose e contorte, il suo finale (in cui la delusione sulle sorti della patria amaramente prevale e l’esortazione al giovane atleta si risolve in un invito al rischio e all’azzardo della vita come unico modo di sfuggire al tedio di un’esistenza inutile) ha una forza fulminea ben pertinente a questa fase leopardiana dominata dall’appassionata esaltazione dell’eroismo, dell’attività fino al disprezzo dell’esistenza, valida solo se spesa o arrischiata in energiche azioni, e ben pertinente insieme ad una direzione di poesia in cui il Leopardi tendeva ad un linguaggio e ad una sintassi concisi ed energici, o addirittura difficili e ardui, allo scopo di promuovere nel lettore non una facile degustazione, ma uno sforzo attivo di comprensione e di partecipazione totale all’operazione del poeta, desideroso di suscitare immaginazioni, pensieri e azioni intense e vitali.

Ma dopo queste due canzoni l’ambito patriottico-educativo viene rotto e superato dal premere di intuizioni e problemi piú vasti e universali che salgono dalla meditazione dello Zibaldone e ricevono rinforzo e persino rinnovamento e rotture fulminee per opera della poesia.

Si tratta soprattutto della centrale esaltazione della natura benefica e datrice di vitalità e di belle e generose illusioni che seguita ad essere svolta e sostenuta nello Zibaldone, ma che nello sgorgo poetico delle canzoni seguenti viene investita da dubbi e contrasti bruschi, solo in parte contenuti, limitati, riassorbiti con forza sempre minore. Cosí nel Bruto minore, se la caduta delle illusioni e la bestemmia disperata contro la virtú e contro gli dei sono limitate dalla prospettiva storica che le fa coincidere con la fine dell’epoca della libertà romana e con il prevalere della ragione sulla natura un tempo «reina e diva» (secondo uno schema storico coerente alla contrapposizione già affermata fra epoche antiche, vicine ancora alla natura, e epoca moderna corrotta dalla ragione), la forza della disperazione del grandioso personaggio drammatico di Bruto e delle sue violente accuse blasfeme agli dei, ostili e crudeli verso gli uomini, e contro la stessa natura, divenuta ormai indifferente alle sventure umane (altamente mitizzata nella luna che contempla placida l’insanguinato campo di battaglia di Filippi), è cosí aggressiva e profonda che di fatto già sembra superare ogni distinzione storica ed esprimere la protesta leopardiana contro un ordine delle cose scellerato e crudele cui l’uomo eroico può sottrarsi solo con il suicidio, invano interdettogli da inique leggi naturali o divine.

Tanta è la violenza e la forza di rottura di questa protesta che il poeta è tratto ad assecondarla e a sottolinearla con un linguaggio spesso convulso e quasi sforzato, con tinte cupe e accenti di estrema aggressività che toccano il pericolo dell’enfasi e dell’eccesso, come la vendetta che Bruto esercita sul fato crudele con il proprio suicidio tocca una specie di voluttà maligna che fa pensare ai toni piú accesi di certo romanticismo estremo di tipo byroniano e supera la misura dell’energia piú lucida e sobria della maggiore poesia leopardiana.

Certo il Leopardi cercherà (né senza esiti di una poesia tenera ed elegantissima) di salvare, nella successiva canzone, Alla primavera o delle favole antiche, il suo fondamentale concetto della natura materna e benefica, immergendosi nel vagheggiamento della remota e favolosa epoca mitologica quando la natura partecipava ai sentimenti e ai dolori degli uomini. Ma, mentre in quella stessa canzone vibrava il dubbio su ogni possibilità ulteriore di un vero contatto e di una vera corrispondenza fra natura e uomo, la nuova canzone, Ultimo canto di Saffo, di nuovo, e con una forza piú matura, piú sicura, piú intima (e perciò meno enfatica di quella del Bruto), veniva a riproporre il drammatico sentimento di una natura bella, ma ingannevole e sostanzialmente indifferente al dolore delle sue creature umane, perseguitate dal fato e dagli dei, destinate tutte alla miseria di una vita in cui i brevi giorni lieti della prima età rapidamente s’involano per lasciar luogo alle malattie, alla vecchiaia, all’«ombra della gelida morte». Conclusione universale che supera ormai ogni limitazione storica o diversità personale, mentre il caso particolare della poetessa Saffo (presa nella tragica sproporzione fra la sua altezza d’ingegno e d’animo e la bruttezza del suo corpo deforme, disprezzata amante della natura che la respinge da sé, come il giovane Faone inutilmente amato da Saffo) porta, con la sua enormità dolorosa e il suo significato profondo, una tale rottura nel concetto di una natura benefica madre (e proprio, si noti, nell’epoca stessa della classicità e dell’antichità ancora non corrotta dalla ragione) che difficilmente il Leopardi avrebbe potuto, malgrado tutti i suoi sforzi, saldarla e ripararla davvero. E tale significato di rottura dell’Ultimo canto di Saffo è altamente suggellato da una poesia ormai profonda, matura, complessa, organica e intima, espressa in un linguaggio musicale e limpido, sobrio ed energico, suggestivo e lucido che si apre ormai verso le condizioni piú alte dell’arte leopardiana maggiore.

Invano il Leopardi tenterà, nell’ultima e tanto piú fiacca canzone del ciclo, Inno ai patriarchi, di ritornare ancora a sostenere in poesia una nozione positiva della natura, respingendola nella zona ancor piú remota delle leggende bibliche e dell’epoca patriarcale ebraica insieme cercando di ritrovarla in qualche zona rimasta primitiva e selvaggia del mondo moderno (le «Californie selve»). La debolezza stessa di questa poesia sembra denunciare una persuasione ormai vacillante, anche se il Leopardi nello Zibaldone, in sede di riflessione e di argomentazione filosofica, proseguiva ancora a sostenere il suo sistema della natura, ma sempre piú dovendo notare in esso contraddizioni, difetti, errori mal conciliabili con la sua precedente idea della perfezione e provvidenza mirabile della natura.

Al crescente disagio del pensatore, cosí lucido e conseguente, si associa intanto, in sede di espressione vissuta, l’amarissima e delusiva esperienza del soggiorno romano fra ’22 e ’23: esperienza negativa che, pur ben circostanziata nei confronti dell’ambiente romano, non manca di accrescere l’impeto del pessimismo leopardiano nei confronti piú generali della società e della sorte umana, il senso dolente delle difficoltà delle stesse illusioni in una realtà storica e naturale cosí limitata e ostile.

Da questa situazione vissuta e dalla crescente nuova crisi del pensiero incentrato sul sistema della natura e delle illusioni trarrà origine (nel settembre del ’23 nella rinnovata solitudine recanatese) un nuovo canto che chiude per lungo tempo l’attività lirica leopardiana e sembra aprire la via della prosa filosofico-poetica delle Operette morali.

È quel singolarissimo e quasi sconcertante canto Alla sua donna in cui il Leopardi, nella caduta di tutte le illusioni vitali, si protende in un supremo inno ad un’illusione e ad un’idea creata e proiettata dalla sua mente in una zona astrale, metafisica, soprareale, separata interamente dalla realtà e dalla sua contaminazione: l’idea di una donna inesistente, imparagonabile con ogni donna concreta e reale, e perciò solo oggetto possibile di un amore e di un culto che non potranno essere delusi e disingannati, e che poeticamente si traducono in un inno di tono religioso e platonico di eccezionale purezza e di un ardore e fervore che si bruciano in una specie di calor bianco incandescente, perdendo ogni corposità e colore in un disegno e in una voce dell’animo e della mente che pur non è affatto freddezza e semplice discorso intellettuale. Insomma un capolavoro difficile e arduo quant’altri mai, ma non perciò meno altamente poetico e prova altissima di una poesia tutta fusa col pensiero e delle possibilità eccezionali che il Leopardi traeva appunto dalla sua congiunta autentica forza di pensatore e di poeta.

4. Le «Operette morali»

Questa diretta collaborazione delle forze intellettuali e della sensibilità e della fantasia caratterizza anche la prosa riflessivo-poetica delle Operette morali, l’opera cui il Leopardi si applicò con alto e continuo impegno soprattutto nel 1824, quando egli scrisse la maggior parte delle Operette, aggiungendone poi ancora una all’inizio del 1825, due nel 1827 e due ultime nel 1832.

Le Operette morali sono il capolavoro del Leopardi prosatore e costituiscono insieme una fase fondamentale nello svolgimento del pensiero e dell’esperienza leopardiana, che già nelle canzoni del ’21-22 (e soprattutto nell’Ultimo canto di Saffo) avevano subito una brusca e profonda rottura nei confronti di quel sistema della natura benefica che nei pensieri dello Zibaldone del 1823 era stato tormentosamente ancora affermato, ma anche incrinato da numerose, e a volte assai incisive, riflessioni circa gli errori e i difetti della natura e circa la sua qualità di datrice dell’esistenza (di per sé tediosa e dolorosa) e non della vita come vitalità piena, attiva e capace di generose e felici illusioni.

Proprio su questo problema del vero carattere della natura e della vera condizione dell’uomo alla luce di un materialismo sempre piú risoluto (che il Leopardi riprendeva dalla zona piú aggressiva e antiottimistica dell’illuminismo settecentesco e caricava di un’esasperazione ancora piú decisa, pessimistica, consequenziaria nelle sue conclusioni antiprovvidenziali e nella sua protesta contro l’ordine delle cose, indifferente e ostile all’istinto di felicità dell’uomo) le Operette morali portano contributi essenziali alla svolta decisiva del pensiero leopardiano, che verrà in esse sempre piú affermando una visione lucidamente disperata della condizione umana e della natura come forza meccanica preoccupata solo di trasformare e mantenere la materia – unica realtà vera dell’universo – senza minimamente considerare le pene e il dolore delle creature viventi e sensibili e quindi degli stessi uomini, soggetti a risentire il tormento esercitato su di loro da questa legge perenne di trasformazione e di distruzione, da questa vicenda di nascita, sofferenza e morte dei singoli individui, dolorosamente privati di ogni possibilità di quella felicità cui pure essi disperatamente aspirano secondo un istinto fondamentale, assurdamente immesso in loro dalla stessa natura.

Questa cosí rivelerà agli uomini il suo vero volto, celato dalle sue ingannevoli, belle apparenze: un volto terribile e pauroso, un volto di matrigna crudele e non di madre benevola e pietosa.

A questa conclusione fondamentale (che rimarrà definitiva nel resto della sua esperienza di pensiero e di poesia) il Leopardi giunge al centro delle Operette morali, del 1824, in quel capolavoro organico e drammatico che è Il dialogo della Natura e di un islandese, prova possente delle piú alte e complesse possibilità espressive delle Operette, troppo a lungo erroneamente considerate dalla critica prima come frutto freddo e impoetico del puro intelletto, poi come prosa poetica e altissima elaborazione artistica di problemi già risolti nella meditazione dello Zibaldone e contraddistinta da un tono fondamentale e costante di ironico distacco, di misura amaramente sorridente, aliena da ogni moto sentimentale e da ogni impeto drammatico.

Invece (come ben dimostra quel capolavoro centrale) le Operette morali nascono, come già si diceva, da una profonda fusione di forza intellettuale e di forza poetica, in cui si pongono e progrediscono problemi e conclusioni (che nascono da premesse dello Zibaldone, ma le sviluppano e le portano a posizioni piú avanzate e decisive riprendendo, con nuova forza e piú spietata coerenza e consequenziarietà, le argomentazioni e spesso anche certe forme stilistiche dell’illuminismo piú aggressivo, pessimistico e materialistico). E cosí insieme dalla pressione di tali problemi, che investe tutta la partecipazione della personalità leopardiana, scaturisce coerentemente e organicamente la loro rappresentazione artistica. E questa, pur sulla base di un tono di alta misura sentimentale e riflessiva (corrispondente ad una volontà di scandaglio lucido e di una rappresentazione nitida e sicura dei problemi che assillano il pensatore-poeta), si articola in una grande varietà di taglio del dialogo e della narrazione, di forza ironica ora piú lieve ora piú aggressiva, satirica e dolente, di sfumature pietose e malinconiche, di impeti piú energici e drammatici, di voci diversamente intonate delle figure dialoganti o narranti.

E, lungi da una monotona uguaglianza, il lungo ciclo delle Operette del ’24 (cui le successive operette aggiungeranno nuovi toni e nuovi contributi artistici e riflessivi in rapporto al successivo svolgimento leopardiano) presenta uno sviluppo di problemi e di soluzioni artistiche di cui solo un minuto esame delle singole operette potrebbe dare adeguata dimostrazione, ma di cui qui richiameremo almeno le fasi fondamentali.

Cosí la prima operetta, La storia del genere umano, fa da grandioso preambolo a tutto il ciclo, proponendo, in un mito complesso e in un’aura favolosa e soavemente pietosa, il problema della sostanziale infelicità degli uomini, cui invano gli dei (essi stessi impotenti di fronte ad una scontentezza che non comprendono e che rende singolarmente infelice la razza umana) cercano di sopperire con espedienti che, nelle varie età del genere umano, rapidamente si rivelano insufficienti a soddisfare quel bisogno di felicità che gli uomini portano nella loro natura e che non può essere mai veramente soddisfatto. Né ciò avviene veramente per colpa degli uomini (come era apparso a lungo al Leopardi quando sosteneva la felicità dello stato naturale e riponeva la causa della successiva infelicità nell’allontanamento dalla natura da parte dell’uomo), ma per la loro natura e per il loro sventurato destino.

Poi, in un primo gruppo delle operette seguenti, il Leopardi si applica a satireggiare soprattutto le stolte e superbe concezioni umane che credono la terra e l’universo al servizio dell’uomo e credono questo destinato alla perfezione e alla piena felicità (aggredendo cosí in realtà piú che l’uomo in genere, particolari ideologie religiose o filosofiche ottimistiche e antropocentriche-geocentriche), e lo fa adoperando un’arte piú apertamente ironico-satirica sottile e capace di toni e invenzioni spesso genialmente bizzarri e surreali. Come può verificarsi nella lettura di operette come il Dialogo di Ercole e di Atlante o nel Dialogo della moda e della morte, o nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, cosí vivaci e alacri nel contrappunto delle battute celeri e acremente sorridenti. Ma a mano a mano che egli procede nella costruzione delle Operette l’impegno riflessivo-poetico si approfondisce, si fa piú complesso, dando luogo ad una problematica piú centrale e ad un’arte piú complessa e vibrante, a toni piú fondi, drammatici, aggressivi e malinconici che raggiungono la massima forza e organicità quando dal rilievo della stolta superbia e delle illusioni ottimistiche umane lo scrittore giunge ad assalire e chiarire il centrale problema della natura e della sua responsabilità nei confronti dell’infelicità dell’uomo, ormai considerato vittima innocente di una legge inesorabile e crudele del tutto indifferente alla sorte di tutti i viventi. Ciò avviene già nel breve Dialogo di Malambruno e di Farfarello (cosí malinconico nella voce dell’uomo che invano è ricorso all’arte magica per ottenere l’aiuto di un demone al suo disperato bisogno di una felicità che il demone dichiara impossibile per gli uomini) o nel Dialogo della natura e di un’anima (già cosí cupo sotto le lievi apparenze scherzose nell’enunciare il destino sventurato di un’anima grande e perciò tanto piú sensibile e quindi infelice) o nel Dialogo di un fisico e di un metafisico (che rivela la profonda aspirazione leopardiana ad una vita veramente vita e cioè ricca di sensazioni e di attività e perciò preferibile, se tale e brevissima, ad una vita lunga e vuota, e cioè non vita, ma solo esistenza) o nella Scommessa di Prometeo, che già delinea con scene vaste e suggestive il grande tema dell’infelicità naturale dell’uomo a qualsiasi livello di civiltà e quindi la stoltezza di ogni orgoglio «prometeico» sulla presunta superiorità della creatura umana rispetto alle altre razze viventi. Ma ciò soprattutto avviene nel ricordato capolavoro del Dialogo della Natura e di un islandese, in cui sullo sfondo di un paesaggio desertico e desolato (il centro dell’Africa dove il povero islandese, dopo aver invano peregrinato in tutti i paesi e in tutti i climi cercando non piú la felicità, ma almeno la possibilità di non soffrire, incontra lo stesso suo nemico, la Natura, potentemente rappresentata in una donna di grandezza mostruosa e dal volto «mezzo tra bello e terribile») si svolge l’incontro fra la voce dell’islandese (un uomo come tanti altri uomini), appassionata, incalzante, disperata nella narrazione delle pene infinite causategli da ogni clima e da ogni condizione e nelle sue domande sul perché di tanta infelicità e sul perché della stessa vita universale, causa solo di dolore a tutti i viventi, e la voce gelida e ferma della Natura che enuncia la sua legge di distruzione, trasformazione, conservazione della materia, il suo carattere di assoluta indifferenza alla sorte dei singoli e che all’ultima domanda dell’uomo (a chi giova un ordine delle cose che fa solo patire i viventi?) non risponde se non con i fatti che riconfermano la sua legge, quando, nel finale, disperato scherzo ironico-macabro, si presenta la duplice e concorrente versione secondo cui l’islandese viene divorato da due leoni affamati (che poco dopo morranno di fame) o viene investito e sepolto da una tempesta di sabbia che lo scarnifica e riduce come una mummia.

Vicino e dopo questa formidabile operetta l’alacrità artistica e riflessiva del Leopardi si apre a forme diverse di toni e di problemi che hanno superato nettamente l’ambito e l’arte piú limitati e spesso piú letterari anche se sempre geniali delle prime operette e che svariano fra la malinconia sognante del Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (incentrato sulla vanità del piacere, sul maggior valore del sogno rispetto alla realtà, sulla terribile forza della noia), e lo sdegno mescolato alla compassione per le teorie superbe della perfezione o della perfettibilità della specie umana nel Dialogo di Timandro e di Eleandro (in cui Eleandro, voce del Leopardi, chiarisce come l’attacco leopardiano non sia contro gli uomini ma contro il fato e la natura), il tono di amara saggezza discorsiva e sentenziosa del Parini ovvero della gloria o dei Detti di Filippo Ottonieri (smantellamento di tante illusioni che il Leopardi aveva prima esaltato e perseguito), la sublime e misteriosa evocazione della voce dei morti (nel Dialogo di Federico Ruysch e le sue mummie) che pur conferma la maturata concezione sensistico-materialistica del Leopardi (la morte come cessazione di sensazioni e quindi piuttosto languido piacere che forte dolore) e, nel coro in versi dei morti (unica espressione lirica di questo periodo), la comune sorte di assoluta infelicità di morti e viventi: «però ch’esser beato / nega ai mortali e nega ai morti il fato».

Infine, tre operette chiudono il grande ciclo del ’24 con nuove invenzioni artistiche che ben suggellano le ribadite conclusioni del profondo pessimismo leopardiano e insieme della sua aspirazione ardente ad una vita piena e poetica: piú che l’affresco sapientissimo dell’Elogio degli uccelli (esaltazione di una vivacità e allegrezza degli uccelli del tutto mancanti agli uomini), la poetica rappresentazione della figura di Colombo (nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez) che, fra il dubbio del fallimento della sua impresa e i preannunci della terra che si anima, esalta il rischio della vita di contro al tedio di un’esistenza mediocre e inerte, e il grandioso e terribile annuncio che un mostruoso animale (nel Cantico del gallo silvestre) fa agli uomini circa la loro giornata e sulla loro vita infelice, conclusa da una morte senza speranze, e circa la stessa sorte di distruzione finale di tutto l’universo.

5. I canti del periodo pisano-recanatese

Dopo il formidabile lavoro creativo del 1824 la forza di sensibilità e di fantasia del Leopardi sembra come disseccata e, malgrado i viaggi e i soggiorni fuori di Recanati e le loro occasioni di incontri e di vita socievole, negli anni immediatamente seguenti la personalità leopardiana vive un periodo caratterizzato da una minore alacrità e da un senso di stanchezza e quasi cedimento al peso delle sventure e di un fato avverso cui lo scrittore cerca di adattarsi con quella saggezza stoica e con quella morale del disimpegno e dell’astensione che egli intanto appoggiava con la traduzione del Manuale di Epitteto, appunto fondato su tale tipo di morale, elogiandola nel preambolo del traduttore a quel testo come adatta a persone non forti e non eroiche o (come era il suo caso) a momenti di particolare debolezza e sopraffazione delle sventure, ma che insieme molto significativamente proclamava non veramente sua e congeniale alla sua natura piú disposta alla morale eroica e alla resistenza accanita ai colpi del destino.

È un periodo infatti privo di vere espressioni di poesia, ché tale non può dirsi davvero la debole e pallida Epistola al conte Carlo Pepoli che mestamente e stancamente ribadisce il senso della vanità della vita e di ogni attività tesa a fuggire il tedio e la noia e semmai punta sul piacere del pensiero e della pura meditazione filosofica, cui di fatto egli soprattutto si applica nella prosecuzione dello Zibaldone e nello svolgimento analitico e sempre piú lucido della sua nuova e pessimistica visione della vita e della natura, del suo sempre piú chiaro materialismo, esposto, in forme piú nudamente speculative, anche nell’operetta del ’25, Il frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco.

Ma questa forma di atonia sentimentale e poetica è tutt’altro che definitiva se già nel 1827 assistiamo ad una ripresa di alacrità creativa e sentimentale nelle due nuove operette morali: Il dialogo di Copernico e il Sole e Il dialogo di Porfirio e Plotino. Ed è soprattutto nella seconda che, proprio nell’approfondimento del tema del suicidio, che il filosofo Porfirio dimostra razionalmente giustificato di contro a leggi naturali o religiose verificate vane e assurde (con l’implicito duro attacco alla credenza dell’immortalità dell’anima che vietando il suicidio nel timore di pene ultraterrene si rivela come una credenza particolarmente nociva all’unica possibilità dell’uomo di sfuggire alla sua infelicità con la morte volontaria), il Leopardi, per bocca di Plotino, battuto sul terreno filosofico dalle argomentazioni dell’amico tentato dal suicidio, ma ricorrente al valore del sentimento, viene esprimendo (in una prosa malinconica e affettuosa di alta vibrazione sentimentale) una nuova e importantissima prospettiva, essenziale alla sua ripresa di sensibilità e di poesia. Plotino, infatti, pur dichiarandosi convinto della inoppugnabile validità degli argomenti filosofici dell’amico, lo esorterà a desistere dal suicidio in nome di quel «senso dell’animo» e di quell’amore per gli altri, amici e parenti, per i quali bisogna pur continuare a vivere per non procurare loro un sí grande dolore.

«Viviamo e confortiamoci insieme», sarà la conclusione di quel nobilissimo dialogo di due persone cosí alte per pensiero e per sentimento, e tale conclusione ben apre (cosí come fa anche un bellissimo pensiero dello Zibaldone dello stesso anno, che, distruggendo il presunto consenso comune circa l’immortalità dell’anima, punta sul dolore immenso che i vivi provano di fronte alla morte dei loro cari come eterna perdita di quelli e della loro vita per sempre finita, del rapporto e del colloquio affettuoso con loro) una nuova fase dell’esperienza leopardiana cosí fortemente tesa al valore del sentimento, al senso degli «altri», al recupero degli estinti nel ricordo e nella poesia che lo esprime e lo convalida, mentre insieme prende valore il ricordo della propria beata età della fanciullezza e dell’adolescenza illuminata da illusioni e speranze poi per sempre perdute nello svolgimento della vita e nella rivelazione ed esperienza inevitabile dell’infelicità umana.

Il senso degli altri, il «senso dell’animo», il valore del ricordo come recupero del passato e degli scomparsi si inseriscono in tutto un risvegliarsi dell’animo, della sensibilità e della forza poetica del Leopardi, che trova iniziali condizioni propizie nel soggiorno a Pisa (fra le gradite offerte del clima dolce, della città vagheggiata per il suo «romantico» «misto di cittadino e di villereccio», di una sua via che il poeta chiamò «via delle rimembranze», tanto lo sollecitava ai ricordi recanatesi della sua prima età) e che nella primavera del 1828 si traduce in nuovi componimenti poetici, il cui tipo di tono, ritmo e linguaggio seguiterà a dominare nelle poesie del 1829-1830, scritte nell’ultimo soggiorno recanatese, in un nuovo grande ciclo poetico tradizionalmente accomunato sotto la denominazione di «grandi idilli». Denominazione che può ancora accettarsi (per certa relazione innegabile con aspetti degli idilli del ’19-20) a patto di ben comprendere la singolarità originalissima che la parola «idillio» deve assumere nei confronti di queste grandi e complesse poesie (lontanissime, ancor piú dei primi idilli, da ogni semplice gusto del pittoresco e di una placida contemplazione e degustazione di sensazioni e quadretti paesistici) e ben tenendo presente quanto scrisse il Leopardi stesso quando, in un programma di poesie del 1828, progettò di comporre «idilli esprimenti sensazioni, affezioni, avventure storiche del proprio animo». Ché in questi canti ogni quadro e scena di paesaggio, ogni figura e personaggio, ogni contemplazione di natura e di vita, sono inseparabili dalla pressione di sentimenti profondi e di problemi e temi sempre presenti e validi – seppur con varia forza – della visione filosofica pessimistica leopardiana e della sua affermata concezione della natura, amabile nelle sue vaghe apparenze, ma fondamentalmente crudele e ostile agli uomini. Solo che la protesta leopardiana contro la natura e il fato avranno in questi canti un tono piú di «lamento» e di misurata e pacata malinconia elegiaca che non il tono di grido drammatico che aveva avuto in certe canzoni del ’21-22 e che con tanto maggiore, consistente e profondo vigore avrà nei nuovi grandi canti dell’ultimo periodo.

Ecco: nella poesia del periodo pisano-recanatese si afferma una misura melodica e armonica, una intensità profonda, ma sommamente equilibrata, una voce di canto fusa e perfetta cui corrispondono un linguaggio sobrio e tenero, eletto e popolare insieme, nella stessa metrica, un ritmo di discorso poetico fluido e continuo sia che il Leopardi scelga (dopo il metro canzonettistico del Risorgimento) la strofe libera di settenari e endecasillabi variamente accordati dalle rime o, nel caso unico delle Ricordanze, sequenze di endecasillabi sciolti.

Al centro della poetica di questi canti sono alcuni punti fondamentali esposti nello Zibaldone di questo periodo: la nozione della lirica (e del suo primato su tutti gli altri generi poetici) come espressione assolutamente personale di sentimenti autenticamente provati e vissuti dal poeta, la teoria della «doppia vista» del poeta che da una sensazione e da un oggetto presente è riportato ad evocarne altri lontani, remoti, intimamente collegati a quelli presenti, la fondamentale forza poetica del ricordo o «rimembranza» che sottrae al doloroso presente e riporta alle dorate zone del passato e specie dell’infanzia e adolescenza tentando di recuperarne momenti, speranze, figure per sempre scomparse e insieme inevitabilmente urtando con il presente e provocando un moto profondo dolce e mesto, idillico-elegiaco, luminoso e struggente di incomparabile originalità e purezza commossa, una tensione alla vita e ai suoi incanti (bellezza di un paesaggio nei suoi elementi essenziali e poco vistosi: le «vie dorate e gli orti» in A Silvia o l’«aria e i campi» nelle Ricordanze, vivacità semplice e schietta di figure popolari e di atti e scene quotidiane e domestiche), alla felicità delle speranze e dei sogni della prima età, e insieme un sentimento profondo della caducità inesorabile di tutto ciò, della sua qualità illusoria rivelata dal confronto con il dolore del presente e della verità della vita, destinata all’infelicità e alla morte.

Questa grande forza poetica (che pur non è senz’altro somma e definitiva, come troppo spesso si è pensato, se la poesia leopardiana troverà altri modi altissimi nel suo ultimo periodo fino al capolavoro supremo della Ginestra) venne aperta, come dicevamo, a Pisa, nella primavera del 1828, quando – dopo il lieve apologo dello Scherzo, che denunciava, nella perdita della «lima» nell’officina delle muse, il profondo bisogno leopardiano di una elaborazione stilistica attenta e instancabile di contro alla sciatteria e alla composizione frettolosa che il Leopardi attribuí ai suoi contemporanei, ai romantici (elaborazione che è cosí validamente documentata dalle varie stesure e correzioni dei Canti) il poeta scrisse il Risorgimento che, in un metro, settecentesco di strofetta di versi brevi e rapidi, esaltava l’improvviso e inatteso risorgimento del cuore e della sensibilità e prendeva coscienza della sua nuova condizione di fronte alla storia della sua anima passata dalla sensibilità ardente e dalle speranze ignare della prima età al progressivo inaridimento coerente alla rivelazione dell’amara verità della vita, alla caduta definitiva delle speranze, all’incapacità di sentire e di commuoversi. Ora – cadute le speranze che non potranno mai piú risorgere – il poeta sente che tuttavia si è sciolto il gelo del suo cuore e che egli è nuovamente capace di palpitare, di provare piacere e dolore, di essere attratto dal fascino della natura o della bellezza femminile pur ben conoscendone la vanità e l’illusorietà.

Su questa presa di coscienza, preambolo piú che realizzazione di grande e vera poesia, questa sgorga in un primo componimento di eccezionale intensità e perfezione: quel canto A Silvia in cui ben si misurano insieme le nuove possibilità di maturità espressiva della nuova poesia e la forza che ne sorregge e sottende l’eccezionale misura ed equilibrio, la sublime purezza melodica.

Un moto profondo intreccia, nel colloquio del poeta con la fanciulla morta sulle soglie della gioventú e poi con le proprie perdute speranze, la rievocazione e il recupero, per mezzo della memoria, di quella figura semplice e incantevole, rappresentata soprattutto attraverso elementi essenziali e suggestivi («gli occhi ridenti e fuggitivi», «gli sguardi innamorati e schivi», il «perpetuo canto», la passeggiata festiva e paesana con le popolane sue compagne), e dell’adolescenza dello stesso poeta illuminata dalle speranze sullo sfondo di un paesaggio ugualmente semplice ed essenziale. Poi quella rievocazione e quel recupero si scontrano con il presente, con la morte, con la caducità delle speranze giovanili e la memoria stessa rivela i suoi limiti, tutto si oscura sotto l’ombra gelida della morte che ha precocemente rapito la fanciulla e dell’amara esperienza della vita che ha stroncato la speranza del poeta.

E questa (incantevolmente fusa con i caratteri femminili di Silvia) addita al poeta, come termine di una vicenda cosí radiosamente iniziata, la squallida tomba.

Ne nasce un insieme di suprema semplicità e sublimità, uno svolgersi di luminoso e oscuro, di lieto e di triste, in cui vibrano con estrema perfezione, misura, simmetria di ritmo, di melodia, di linguaggio casto e tenero i profondi motivi leopardiani della crudeltà della vita umana aperta con tante speranze, svolta e conclusa con tanta delusione e squallida infelicità.

Poi – dopo il disegno piú gracile e pure perfetto del Passero solitario, molto verisimilmente scritto nella primavera-estate del ’29, dopo il ritorno a Recanati (melodica ed elegiaca espressione del rimpianto del poeta per un suo destino inspiegabile di solitudine e di non partecipazione alla fervida vita di rapporti della gioventú cosí vagheggiata e rappresentata nelle umili e schiette gioie della festa paesana) – la poesia della memoria, della «doppia vista», della lirica fondata sull’esperienza piú personale e personalmente vissuta troverà il suo sgorgo piú intero nelle grandissime Ricordanze.

In questa poesia il metodo della memoria, della «doppia vista» (il poeta vede un oggetto presente e questo lo rimanda ad un oggetto del passato o della sua immaginazione), della lirica come espressione della propria esperienza e storia piú intima viene impiegato in tutte le sue risorse poetiche e in una misura meno simmetrica e perfetta di quella di A Silvia, ma con una maggiore libertà e alacrità inventiva di eccezionale modernità, con una perfetta corrispondenza fra l’ampio e ondulato discorso poetico e il fluire spontaneo e incessante delle ricordanze che, stimolate da sensazioni e oggetti presenti, continuamente affiorano e si svolgono, con tutto l’incanto del passato dell’infanzia e dell’adolescenza recuperato e rappresentato nella dolcezza delle sue speranze, delle sue gioie intatte e beate, delle sue stesse ansie e precoci dolori comunque pieni di aspirazioni alla vita e di vaghi sogni, in un ambiente domestico tranquillo e sicuro, nell’aprirsi della sensibilità alle bellezze naturali di cieli stellati, di notti profumate e silenti, rotte solo dal canto rauco delle rane o dal rintocco confortante delle ore del campanile, in una fusione di sensazioni auditive e visive suggestive e sobrie che accordano presente e passato in una dimensione di profonda intimità del paesaggio, del tempo e dello spazio.

Ma la memoria, mentre riporta a quella zona remota e dolce, urta pure con il presente doloroso e disilluso e mescola alla dolcezza l’amarezza di questo presente e la certezza che il recupero del passato è alla fine vano e impossibile.

Quel passato è per sempre passato e dal ricordo emerge la certezza della caducità e dell’infelicità, come ben dicono i versi in cui il percorso della memoria e i suoi effetti sono interamente e poeticamente spiegati:

Qui non è cosa

ch’io veggo o senta, onde un’immagin dentro

non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per sé; ma con dolor sottentra

il pensier del presente, un van desio

del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. (vv. 55-60)

Sicché la poesia troverà la sua conclusione piú profondamente dolce-amara, luminosa e mestissima nella «ricordanza acerba» della fanciulla vagheggiata e morta in età giovanile: quella Nerina che, rievocata in tutto lo splendore della sua gioventú e nel suo passo di danza, viene poi a poco a poco privata di tutte le dolcezze della vita, velata dall’ombra gelida della morte e del «mai piú», per sempre lontana (in una visione, come quella leopardiana, della morte come definitiva chiusura di ogni vita e di ogni speranza ultraterrena) e oggetto solo di un «eterno sospiro» e rimpianto e della «ricordanza» che rivela alla fine il suo fondamentale carattere di amarezza desolata e struggente. Il passato è per sempre passato, i morti sono per sempre morti e ai vivi non resta che intrecciare al loro ricordo i propri sentimenti piú teneri e profondi.

Dopo questo capolavoro la poesia leopardiana di questo periodo si esprimerà ancora nei due canti, Il sabato del villaggio e La quiete dopo la tempesta, in cui i quadri puri e perfetti del paesaggio e delle scene paesane profondamente si giustificano non in un gusto contemplativo e descrittivo a sé stante, ma nella loro corrispondenza alla delicata, ma sicura membratura dei due corollari convergenti della riflessione ed esperienza leopardiana della vita: il piacere non esiste, dato che esso può brevemente e illusoriamente trovarsi solo nell’attesa di un bene che non verrà e nella momentanea cessazione del dolore. Componimenti, dicevo, puri e perfetti in cui il Leopardi rivela poeticamente una conclusione cosí sicura del suo pensiero attraverso i quadri e le scene rappresentate e attraverso la riprova delle sue verità nell’esperienza stessa non di personaggi di eccezione (come potevano essere stati Bruto e Saffo), ma di personaggi umili e schietti, naturali e istintivi: il povero artigiano o la donzelletta, cui insieme va la sua profonda simpatia per gli strati popolari, cosí umani e cosí liberi da ogni complicazione e deformazione di cultura e di artificio.

Su questo motivo di una riprova delle conclusioni della sua filosofia «disperata», ma «vera» in personaggi naturali e non colti (e quindi tanto piú adatti a esprimere l’universale validità di quelle verità raggiunte, come dice in un pensiero dello Zibaldone di quell’anno, dalla «ragione vergine e incolta» come, e a volte meglio, dalla piú elaborata filosofia) si impianta piú solidamente e centralmente l’ultimo e grande canto di questo periodo, lungamente elaborato fra l’ottobre del ’29 e l’aprile del ’30, Il canto notturno di un pastore errante per i deserti dell’Asia. Proprio attraverso la voce del pastore incolto e non toccato dalla civiltà e dalla società, solo con la sua greggia (che prima invidia per la sua mancanza del tedio che domina l’uomo, peggiore anche del dolore, ma che poi accomuna nel generale destino di infelicità tutti gli esseri viventi), il Leopardi esprime – nelle forme di una malinconica melodia, di un lamento volutamente monotono nella sua costante mestizia – le terribili verità cui il suo pensiero e la sua esperienza erano giunti e che divengono cosí verità universali, frutto dell’esperienza piú primitiva e ingenua. Ed esse risuonano – nelle interrogazioni trepide e pure del pastore alla luna e nelle sue tristi conclusioni – su di uno sfondo desertico e vastissimo e di un cielo notturno immenso, in cui campeggia una mitica e candida luna, lontana e indifferente, conservando la misura melodica e la casta suggestione tipica dei canti di questo periodo, ma ormai consumando, in un piú aperto moto elegiaco e doloroso, gli aspetti piú affascinanti della vita domestica e paesana, del paesaggio consueto e locale, che avevano portato la loro densa e soave bellezza nei canti precedenti. E si ha la chiara impressione che con il Canto notturno il Leopardi stia per abbandonare definitivamente la poetica della ricordanza, della «doppia vista» e per aprirsi a nuove forme di espressione poetica della sua grande personalità, non piú contenuta nel mirabile, ma instabile equilibrio della poetica dei «grandi idilli».

6. L’ultimo periodo della poesia leopardiana

Con la definitiva partenza da Recanati nell’aprile del 1830 il Leopardi, come già accennammo nella narrazione della sua vita, entra in un periodo che, pur con interne diversità, è caratterizzato da una prospettiva piú energica e risoluta, da un atteggiamento virile ed eroico che nasce da una piú decisa coscienza di sé, del proprio valore, del valore delle proprie idee, cosí come – esaurito il fascino e l’attrazione del ricordo e del passato che aveva avuto tanta importanza nella poesia dei canti pisano-recanatesi – il poeta affronta piú direttamente il presente e vi afferma ed esprime il proprio mondo di sentimenti, di persuasioni, di esperienze attuali.

In questa dimensione piú combattiva e virile il fondo energico ed eroico, cosí profondamente proprio della personalità leopardiana, viene piú esplicitamente ad esprimersi, mentre coerentemente si pronuncia nel Leopardi un maggior bisogno di affetti e di incontri con persone reali (non piú con figure recuperate nel ricordo e nel passato), di impegni nella realtà del proprio tempo.

Proprio da un’esperienza intensamente vissuta – prima nell’esaltazione di una scoperta delle nuove possibilità del suo animo, poi nella delusione e nel riconoscimento di un «estremo inganno» – prende avvio la nuova poesia leopardiana che, pur con arricchimenti e sviluppi ulteriori, manterrà il suo nuovo accento di forza, di musica aspra ed energica, di immaginosità scabra e violenta, fino al capolavoro estremo della Ginestra.

L’esperienza fu quella della passione amorosa per una bella signora fiorentina, Fanny Targioni-Tozzetti, conosciuta nel piú largo cerchio di amicizie e conoscenze in cui il Leopardi veniva cercando una vita piú ricca e alacre di rapporti socievoli, e amata in un’entusiastica accensione amorosa cosí diversa da ogni precedente vagheggiamento amoroso (quasi sempre piú fantastico che reale) e cosí legata a quel fortissimo sentimento di sé, della propria grandezza spirituale, del proprio mondo di affetti e di idee che cosí energicamente si era sviluppato nel Leopardi di questo nuovo soggiorno fiorentino.

E a questa esperienza corrispose un ciclo di canti di grande novità e di grande intensità poetica, anche se con qualche caduta, qual è quella del Consalvo, in cui la forza poetica si fa troppo febbrile ed eccitata entro una specie di novella romantica in versi ben poco congeniale alla forma lirica leopardiana.

Ma, se si toglie appunto il Consalvo, tanto piú debole e incerto, questo ciclo amoroso si profila potentemente nella sua scandita continuità di intensità poetica e, ripeto, di novità rispetto alla zona dei canti pisano-recanatesi e quasi di opposizione alle forme di una poesia piú melodica e dolce anche nelle sue vibrazioni piú amare e intense.

Si pensi anzitutto al Pensiero dominante, che apre il ciclo ed esalta il pensiero dominante dell’amore in un impetuoso ed energico ritmo, scandito e perentorio, ben coerente alla volontà poetica di affermare e sottolineare potentemente l’altezza di quel pensiero e di quella passione, la loro incomparabilità con ogni altro sentimento e desiderio umano, la loro pertinenza ad un animo conscio della sua eccezionale nobiltà, della sua virile forza, che continuamente oppone valore a disvalore, sentimenti alti e nobili a viltà e a mediocre saggezza. Tutti i particolari del ritmo, del linguaggio, delle immagini corrispondono a questa ispirazione centrale esaltante e sicura, a questa severa gioia del possesso di un pensiero e di un sentimento cosí eccezionale e adatto all’animo che ne è dominato. Bandita ogni traccia della nostalgia del passato, tutto punta sul presente, sulla presenza attuale di quel pensiero che accende tutte le forze migliori dell’animo e della mente del poeta sul cui interno paesaggio (sostituito agli elementi del paesaggio esterno cosí poeticamente vagheggiato nella zona dei grandi idilli) quel pensiero si stacca potente e solitario: «siccome torre in solitario campo / tu stai solo, gigante, in mezzo a lei».

Poi in Amore e morte (che corrisponde a dolorose oscillazioni di una passione non corrisposta, ma ancora non rifiutata) l’unione di amore e di morte come le sole cose meritevoli di esser desiderate in una vita altrimenti desolata si attua in movimenti intrecciati di una dolcezza severa e sobria e di un’impetuosa affermazione dell’animo eroico del poeta che chiede al fato l’uno o l’altro dei due fratelli (appunto amore e morte) e che, nel presentimento dell’abbandono del primo, si immerge (nel grandissimo finale del canto) in un’ardente preghiera alla morte e nella prefigurazione di se stesso di fronte alla morte come ribelle al fato che lo perseguita, resistente ad ogni illusione e conforto di tipo religioso, ad ogni accettazione pavida di una sorte ostile, sfidata eroicamente nell’atto supremo della morte.

E il tema dell’inno e della preghiera alla morte si esprime anche nell’ultima delle Operette morali (la penultima, anch’essa del ’32, era il breve e agile Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere), il grande Dialogo di Tristano e di un amico, in cui il Leopardi afferma la persuasione della verità della sua filosofia pessimistica, dopo un’ironica palinodia, e la conclude appunto nell’espressione trascinante e possente di un desiderio di morte liberatrice dalle sofferenze e dalle delusioni dell’esistenza.

Infine (al di là del ricordato Consalvo che immaginava – attraverso una invenzione di personaggi storici – una morte compensata da un bacio della donna amata) due canti legati alla delusione profonda della passione definitivamente non corrisposta. Prima il breve, ma intensissimo canto A se stesso, in cui la nuova poetica della forza eroica attinge una delle sue espressioni piú vigorose e sintetiche dando vita a una serie di movimenti estremamente brevi che martellano e ribadiscono con estrema potenza l’invito del poeta a se stesso e al proprio cuore di non cedere piú a quello che ora gli appare l’«estremo inganno», a non palpitare piú, a disprezzare la vita, la natura, l’ipotetico creatore di questa («il brutto / poter che ascoso al comun danno impera») e persino quella parte di se stesso che ha ceduto all’inganno amoroso.

Poi Aspasia, in cui il Leopardi intese giustificare, in una poetica e potente rievocazione del suo innamoramento (in una scena di grande efficacia realistica), l’inganno cui egli aveva ceduto e che, giudicato dal profondo del proprio animo sicuro e persuaso della propria grandezza, si rivela in realtà come dovuto allo scambio fra la donna ideale frutto della mente del poeta e degna del suo grande animo e la donna reale, con la sua inevitabile sproporzione rispetto a quell’alta immagine ideale. Sicché, al termine del ciclo amoroso e della sua drammatica conclusione, ben si conferma il tema fondamentale della nuova poetica leopardiana: e cioè la sicurezza eroica di se stesso e del proprio mondo sentimentale e ideale.

Tale sicurezza e persuasione eroica del proprio mondo di sentimenti e di idee si tradurrà poi (al di là della sua espressione nei canti dell’amore fiorentino e nelle due canzoni sepolcrali che pensosamente e dolorosamente propongono il problema della fragilità e caducità umana e ne chiedono appassionatamente conto alla natura) in forme di piú diretta polemica ideologica con gli ambienti spiritualistici e neocattolici di Firenze (Palinodia) e di Napoli (I nuovi credenti), aggredendo con satira pungente l’assurdità del loro fatuo ottimismo, della loro sciocca fiducia in un progresso costante e sicuro, affidato soprattutto alle nuove scoperte tecniche e ad una civiltà che oggi potremmo chiamare consumistica.

Ma ancor piú impegnativa e complessa che non nei due componimenti ora citati è l’espressione poetica della sua posizione polemica con il «secolo sciocco» che il Leopardi attuerà nel lungo poemetto I paralipomeni della Batracomiomachia, scritto lentamente dal ’31 fino quasi alla morte.

In quel poemetto in otto canti, in ottave, il Leopardi, riprendendo l’argomento della guerra fra i topi e le rane del poemetto greco (la Batracomiomachia) da lui tradotto per ben tre volte, svolgeva sotto la finzione animalesca una feroce satira dei moti liberali del ’21 a Napoli e della loro repressione da parte degli austriaci. Non si tratta però, si badi bene, di un atteggiamento antirisorgimentale e antiliberale, o di una satira qualunquistica. Il Leopardi infatti non solo gradua la violenza della sua satira – riserbando i toni piú duri per i granchi (gli austriaci) e per la loro ottusa mentalità reazionaria e militaresca e sfumando le tinte dell’attacco ai topi (i liberali) con una certa compassione verso le loro ingenue speranze –, ma fonda la satira contro quei liberali non sul rifiuto del loro desiderio di libertà e di indipendenza, bensí sulla denuncia della stoltezza dei loro principi ideologici, del loro facile ottimismo, delle loro credenze spiritualistiche e religiose, della loro orgogliosa idea della sorte e della condizione umana destinata a un progresso illimitato e perfetto. Perché per il Leopardi ogni azione, ogni lotta doveva esser fondata su di una filosofia sicura qual era per lui quella materialistica e non su credenze e illusioni ottimistiche, spiritualistiche, religiose come, a suo avviso, era accaduto e accadeva nel liberalismo moderato del suo tempo, destinato perciò alla sconfitta di fronte alla dura forza della reazione, come avviene, nel poemetto, ai topi messi in fuga precipitosa dai granchi che presidiano la loro città di Topaia e tuttavia persistenti nelle loro frivole congiure e nelle loro sciocche illusioni, in seguito alle quali uno di loro, il conte Leccafondi, si recherà nell’Averno per avere consigli e conforti da parte dei topi morti e immaginati viventi nell’aldilà alla luce della credenza di una vita ultraterrena che il Leopardi violentemente satireggia nella macabro-ironica rappresentazione dell’Averno.

Tutto il poemetto, valido anzitutto per l’espressione dell’aggressiva polemica antispiritualistica e antiottimistica di un Leopardi ormai cosí sicuro e persuaso della sua verità, vive in un clima favoloso e in un ritmo narrativo agile e sciolto in cui si alternano con molta efficacia toni ora duramente satirici, ora addirittura macabri e grotteschi, ora piú sorridenti e gustosi, e a volte persino commossi ed entusiastici, come avviene nella scena della fuga ignominiosa dell’esercito dei topi in cui si stacca la figura del loro condottiero Rubatocchi che da solo, abbandonato dai suoi, cadrà combattendo, provocando nell’animo del poeta un alto inno alla virtú e all’eroismo tanto piú commoventi quanto piú rari nel mondo.

L’animo di quest’ultimo Leopardi era dunque tutt’altro che inaridito e chiuso in un pessimismo sterile e misantropico (come forse potrebbe sembrare piú facilmente, e tuttavia ingiustamente, nella isolata lettura dei centoundici Pensieri, che certo raccolgono le conclusioni piú amare della sua esperienza della società e dei limiti egoistici degli uomini) ed era invece ben capace di vivere, sulla base della sua filosofia materialistica e severamente pessimistica, una profonda passione per gli uomini, per le loro virtú, per la loro virile capacità di resistenza ai dolori e ai limiti cui li assoggetta la natura.

E proprio da questa fondamentale passione, congiunta alla persuasione e al coraggio della verità, nascerà l’ultimo e supremo capolavoro poetico leopardiano, la Ginestra, accanto al quale nel piú esile Tramonto della luna il Leopardi pur ribadisce la sua persuasa diagnosi della misera condizione dell’uomo destinato alla vecchiaia e alla morte.

Tale persuasione è essenziale anche alla Ginestra in cui il poeta, in una suprema sintesi di tutte le sue forze fantastiche, morali, intellettuali liricamente fuse, si rivolge a tutti gli uomini energicamente invitandoli a prender chiara e virile coscienza della loro condizione sfrondata da ogni illusione e inganno ottimistico, da ogni orgoglio e frivola fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, da ogni credenza religiosa di vita ultraterrena. Da questo coraggio della verità, da questa consapevolezza della piccolezza e fragilità dell’uomo, avvalorata dalla tremenda e grandiosa rappresentazione delle distruzioni operate dalle eruzioni del Vesuvio su campagne prima fertili e opulente e su città ricche e civili come Ercolano e Pompei, sgorga però una suprema lezione di atteggiamento dignitoso e virile con cui gli uomini, accomunati dalla loro sorte, debbono stringersi in un generoso e necessario vincolo di fraterna solidarietà e impiegare tutte le loro forze nel reciproco aiuto e nella resistenza solidale contro la nemica natura, né cedendo (al pari dell’umile e dignitosa ginestra che sola consola con il suo profumo le desolate lande vesuviane) a stolti moti di orgoglio né piegandosi vilmente di fronte alla terribile potenza che li perseguita.

Al centro di tutto questo imponente e sinfonico canto sta l’eroica personalità del Leopardi, che si esprime nella sua nobile e virile persuasione, nella sua severa polemica contro ogni concezione illusoria e ingannevole, e insieme potentemente rappresenta se stesso e la figura dell’uomo da lui voluto nella gentile e dignitosa ginestra sullo sfondo squallido, desolato, lavico del paesaggio vesuviano e su quello pauroso e vertiginoso dei cieli immensi in cui la terra non è che un piccolo punto, un «oscuro granel di sabbia».

Né si tratta – come per troppo tempo si pensò e si affermò da parte di una critica tutta ferma all’idea idillica della poesia leopardiana – di una lezione in versi, di una mescolanza ibrida di rari momenti di idillio cosmico, di eloquenza, di satira, di ragionamento. Ché, nella superba e formidabile forza espressiva di questo canto, culmina invece la suprema capacità leopardiana di fondere in un unico impeto lirico-sinfonico persuasione e passione, pensiero e fantasia, con una eccezionale novità di mezzi espressivi, con una possente musica aspra e scabra (come il paesaggio descritto), vigorosa e travolgente, che supera ogni misura ed eleganza convenzionale, ogni melodia facile, ogni colore pittoresco. Sicché chi non comprende la grandezza organica della Ginestra, la sua forza rivoluzionaria e sconvolgente di poesia, mal può comprendere il fondo piú vero della grande personalità leopardiana, che in quell’estremo capolavoro ha trovato la sua espressione piú intera e straordinariamente moderna, ha detto la sua suprema parola di verità, di moralità, di poesia che, sul limite della morte, il Leopardi scagliava, con forza inaudita, verso il futuro.